19 febbraio 2021

Usa la mascherina

 

Questa terribile pandemia purtroppo continua in modo incontrollato e su suggerimento ed esortazione (da esperta) della nostra socia Marinella, moglie del vicepresidente che lavora come infermiera nei reparti “CORONAVIRUS” a Trieste ed a periodi assiste i malati terminali che non sempre sono anziani e patologici, vogliamo postare questo articolo per coinvolgere i nostri soci e quante più persone possibili nella impari lotta contro il virus.

Si sente in giro che molte persone non la riconoscono ed affermano che si tratta solamente di una semplice influenza un po’ più virale delle solite e che le persone che decedono sono individui con patologie pregresse per cui né pagano le conseguenze; l’uso delle mascherine non è di nessuna utilità ne necessità e non difendono dalla contaminazione.

Queste persone non hanno quindi capito il concetto ed il principio delle mascherine. La mascherina non serve per evitare la nostra contaminazione che può avvenire anche con il darsi la mano, darsi un bacio o una carezza sulla guancia, nello sfregarsi gli occhi con le dita contaminate.

I giapponesi, inventori delle mascherine sociali, quando hanno un raffreddore, usano la mascherina per non infettare altre persone.

Quando respiriamo o parliamo, e lo si può notare specialmente quando siamo immersi nella nebbia dalla nuvoletta che si nota uscire dalla bocca o dal naso, noi emettiamo vapore acqueo ( le famose goccioline di cui parlano gli esperti), questo vapore, se siamo positivi asintomatici, è contaminato dal virus e si deposita dappertutto anche in faccia agli altri.

In base a questo concetto, la mascherina serve ad assorbire e filtrare questo vapore che emettiamo e che rimane nella parte assorbente della mascherina; per cui

USIAMO LA MASCHERINA !!!!

Se ne deduce che non usare la mascherina è una forma di maleducazione civica nei confronti dei nostri interlocutori perché soffiamo e sputiamo in faccia ad essi la nostra saliva, sotto forma di vapore contaminato.

Ad un vostro interlocutore e soprattutto a tutti i giovani che non usano la mascherina perché persone scettiche fate loro notare questo concetto.

 

SIAMO EDUCATI, USIAMO LA MASCHERINA

E LA PANDEMIA SI RIDURRA’ O SPARIRA’

29 gennaio 2021

Terra Friulana

tratto dal libro di Angelo Floramo   "Forse non tutti sanno che in Friuli...."


LE RADICI DI UNA DIFFERENZA 

           E' una terra dura, questa nostra terra friulana, alle volte può anche sembrare ruvida, sgarbata. Sa di burrasca e di temporale, di pioggia caduta di stravint (a raffica), di bora nera e di nebbia ghiacciata. Noi friulani abbiamo una faccia scolpita "cu le manarie" (l'ascia), spigolosa e sghemba. Abbiamo mani grandi, che non si stancano mai di lavorare, e occhi chiari, capaci di perdersi nel sogno, nella poesia della malinconia e nel dolce amaro dei ricordi. Tutta la vita si stempera in un canto, alla sera. 
           I friulani, malgrado la vulgata credenza, non sono mai stati davvero un popolo di obbedienti e di inquadrati. Questo è un mito inventato dai vari padroni di turno - e ce ne sono stati tanti - che la Storia ha di volta in volta condotto in queste contrade: una favola creata appositamente per addomesticare al meglio i loro sudditi, abituandoli a credere che una delle più antiche virtù patrie fosse appunto la remissività.
           Nel sangue dei friulani si agita qualcosa di gotico, di longobardo, di tedesco e di slavo. Un meticciato troppo ribollente per accettare sottomissioni.
Per questo anche la lingua friulana ha una carattere fortemente popolare, è schietta, non ama gli ambienti curiali: nasce piuttosto da gente di masnada. Bellissima e franca. conosce la grazia della bestemmia e la purezza della preghiera. Si rivolge a Cristo nella religiosa puzza di vino di un'osteria più volentieri che tra gli incensi profumati che aleggiano fra i banchi di una sagrestia.
            La radice cristiana del Friuli, piantata a fondo nelle paludi di Aquileia al tempo dell'evangelista Marco, come ama credere la tradizione, ha prodotto un legno amaro e selvatico, capace di spremere un vino di fosso, che non sa o non vuole restare tappato troppo a lungo dentro il vetro di una bottiglia.
           E' spesso eretica quella radice, tanto che la curia di Roma nei secoli non è mai riuscita a masticarla volentieri: forse perché troppo adusa al sapore dei cortigiani per accorgersi del canto degli angeli, che sa di bosco e di primavera, come amava ricordare Paolo Diacono il longobardo cividalese.
          Nei secoli coloro che hanno assaggiato questo sangue imbastardito e schiumoso lo hanno trovato fresco come l'acqua di una sorgente.
           La storia di questa terra, che gli abitanti caparbiamente continuano a chiamare ancora "Patria del Friuli",  narra di un orgoglio atavico che si rallegra di stare sempre dalla parte sbagliata: siamo stati banditi con Enrico IV, quando Gregorio VII lo scomunicava; e massacrati assieme al Patriarca Bertrando di San Genesio sui guadi del Tagliamento; assieme al grande Marquardo von Randeck abbiamo sognato una Costituzione, probabilmente la prima dell'Europa medievale, quando invece molti altri preferivano prostrarsi davanti ad una corona ai piedi di un tronco; nel fango abbiamo insozzato la rossa bandiera di guerra del patriarcato di Aquileia, quando le tristi soldataglie dei Savorgnan congiurarono per vendere a Venezia una terra libera da centinaia di anni; e con Menocchio siamo stati mugnai filosofi ed eretici; al suono della piva di Maineiro, negromante e mago, abbiamo danzato attorno ai fuochi del solstizio, accesi nella notte di San Giovanni, incantando la luna e fuggendo al volo sull'erba delle radure, impugnando contro il male una semplice mazza di finocchio, anche quando l'inquisitore ci gridava addosso che sarebbe stato meglio convertirsi ad un credo più ortodosso.
          Più conciliare e conciliante. Terremoti e pestilenze, invasioni, eserciti, bombe e cannoni nei secoli non hanno fatto altro che rinforzare lo spirito di una tale radice. Siamo ancora qui, aggrappati ai profili di questo paese di "temporali e primule", come amava definirlo Pier Paolo Pasolini, il cantore di Casarsa.
          E' ovvio che questa stirpe, cresciuta a bocconi di polenta e sogni, è consapevole e gelosa della sua specialità. Sa bene che il suo spirito è come un vino nato da una radice tanto antica quanto storta. Ma è sincero, buono, di casa. La nostra.

 Tempietto longobardo di Cividale Del Friuli